giovedì 20 dicembre 2007

Vipera sarò.

Non era una vipera qualunque e, se poteva far saltar fuori l’argomento in una qualche conversazione, non mancava di specificarlo.
Era un essere umano. Ah, le apparenze non contavano: lei si elevava sopra le sue sciatte e volgari simili, solo capaci di sibilarsi addosso gli sbisci peggiori e di sputarsi veleno. Aveva cambiato anche il suo nome: quando ancora era in una covata d’uova, sua madre aveva già deciso che si sarebbe chiamata Vanessa.

Vanessa. Un bel nome aristocratico che si perdeva in un basso, sottile e sensuale sibilo.
Ma Vanessa preferiva farsi chiamare Anna. Secco, austero, e non c’era caso che scivolasse in nessun tipo di doppia esse, nella pronuncia.

Al tempo in cui si svolge la nostra storia, non c’era più nessuno che riuscisse a ricordare il suo vero nome. Anche io vi parlerò di lei come Anna, per puro rispetto alla sua memoria.
Anna era un animo nobile, forse troppo idealista, ed anche troppo intelligente per non cogliere i pettegolezzi con la stilettavano alle spalle… su quanto le sue scaglie fossero un po’ più opache del solito, su quanto il suo veleno oggi non fosse altrettanto corrosivo di ieri.

Ad Anna piacevano gli esseri umani per quanto odiava i suoi simili: ogni volta che si sentiva sola tra le altre vipere, ogni volta che si accorgeva della loro immensa stupidità e della loro cieca cattiveria, si nascondeva a spiare qualche bipede. Le piaceva il loro stare così eretti, la pelle morbida in cui affondare i denti, le loro pance che si tenevano ben lontane dal suolo, a sfidare la legge di gravità. Le piaceva stare a sentire i discorsi che facevano, spesso così simili a quelli delle vipere, ma dotati di una raffinatezza che un serpente nemmeno si sarebbe sognata.
Tuttavia non si avvicinava mai troppo a loro. Gli umani hanno paura delle vipere.

E così, una sera, Anna decise di iniziare un intenso programma di automiglioramento, per diventare perfettamente simile a loro.

La prima cosa che fece, fu iniziare a esercitarsi nel canto lirico: le permetteva evoluzioni vocali che potevano farle mettere per un po’ da parte i sibili. E quando i suoni furono maturati a sufficienza da articolare vere e proprie parole, organizzò un concerto.
Oh, fu senz’altro un apparente e indimenticabile trionfo: e furono molte che andarono a complimentarsi personalmente con lei, dicendole che – avessero avuto mani per farlo – l’ avrebbero applaudita ore intere. Ma Anna immaginava bene quanto, il primo momento in cui si fossero trovate in disparte, avrebbero riso tra loro su quanto fosse brutta e innaturale la serie di rumori con cui Anna le aveva tediate un’intera serata.
Anna non si rilassava mai. Il pensiero del giudizio altrui la angosciava giorno e notte.
E se la toccavano nel suo punto debole, diventava incandescente di rabbia.
Diventava una vipera.

E lavorava, lavorava, lavorava su se stessa. Lavorò fino a farsi spuntare non un paio di manine, ma addirittura due paia.
Qualcuna delle altre, diceva che somigliavano più a zampe di lucertola che altro. Invidia pura e semplice.
E desiderava, sapete? Desiderava così forte che le caddero i dentini appuntiti, e ne spuntarono invece di nuovi, più squadrati e regolari. Trentadue: all’inizio davano un fastidio terribile.

E una mattina, quando sentì quelle scaglie farsi un po’ meno scure e più morbide, e il suo muso si fece un po’ più schiacciato, diede l’addio alla sua tana e decise di andarsene per sempre.
Le sue sorelle, avreste dovuto vederle, si proclamarono distrutte dal dolore di quella decisione… lei, Anna, che non era affatto una stupida, replicò sdegnosamente dicendo che perfino i loro cugini coccodrilli avevano più dignità a fingere di piangere. Levò la testa, con il muso levato altezzosamente all’insù e se ne andò.
Per non tornare mai più.

Adesso, immaginatevi questa povera vipera con quattro zampe, i dentini regolari e le scaglie ammorbidite, mentre tenta di attaccare bottone con gli esseri umani… ed è sicura di essere preparata su OGNI argomento possibile, per apparire interessante.
Parlò della situazione politica a Bagdad. Della necessità di rinnovare spiritualmente le persone. Della profondità dell’amore e della passione, della loro indivisibilità e allo stesso tempo incomunicabilità.
Avrebbe voluto entrare in politica.
Oppure scrivere un libro.
O aprire un blog.

Invece gli altri umani l’ascoltavano (ma siamo poi così sicuri che l’ascoltassero?), la fissavano intensamente e poi facevano un secco e breve commento su che razza di strano tipo di lucertola fosse quello.
Ora, voi e io sapete benissimo che Anna non era una lucertola, e non assomigliava neppure di striscio a una di esse. Ma evidentemente, gli esseri umani si ponevano meno domande di quello che lei si aspettava.

Lei sgattaiolava su e giù per i muri, illuminata dai lampioni, evitando macchine troppo distratte per far caso al suo passaggio (lei che aveva imparato diligentemente ad attraversare col verde e a fermarsi col rosso). Sognava e rimpiangeva allo stesso tempo il tempo in cui l’avrebbero invitata a qualche talk-show, o in cui si sarebbe parlato delle sue scandalose relazioni extra-coniugali con il meglio del beautiful people all’ultimo grido. Il giorno in cui i suoi articoli di denuncia avrebbero fatto vibrare di protesta l’umanità, levandola contro ogni ingiustizia e prepotenza.
Non era una lucertola!
Però… beh, però ancora zampettava invece di camminare e non stava affatto dritta. Ed era piccolina, e c’era quella maledetta coda che avrebbe dovuto… ritrarsi, no?

Un giorno, un gruppo di bambini la catturò e cercò di tagliarla, quella coda.
Tanto alle lucertole ricresce.
La tenevano ferma, mentre lei urlava impazzita di terrore, dicendo che stavano commettendo un crimine, citando la Convenzione di Ginevra in casi di tortura dei prigionieri, citando febbrilmente passi dei più grandi pensatori pacifisti.
Il dolore le fece stridere la voce e i nervi, mentre il mondo diventava rosso e sembrava colare per strada assieme al suo sangue, orribilmente simile a quello di un essere umano.

E così, cosa restava da fare ad Anna?
Mutilata, sciancata, perennemente derisa, andò in un nido di lucertole.
Si presentò alle altre, e disse che era umana… no, anzi una vipera! Ehm, no. Una lucertola, ecco. Una lucertola. Proprio come loro.
Le altre la guardarono con sospetto… non sembrava proprio una lucertola come le altre… con quel muso troppo schiacciato, quegli strani dentini, quelle zampine che sembravano più mani che altro.

Così, anche quando la accettarono tra loro, preferivano comunque lasciarla da sola. Perché sentivano una sottile inquietudine, quando cantava in quello strano modo in cui solo lei riusciva a farlo, con quei gorgheggi e quei versi che nessuna di loro avrebbe mai saputo riprodurre.

E poi non si rilassava mai. Non stava mai come le altre a pensare al nulla, spaparanzandosi al sole. Certo, non che fosse obbligata, ma è fin troppo noto che la comunità delle lucertole non ama chi si fa troppe domande, chi è troppo cervellotico, insomma. E lei era un po’ troppo intellettuale, per essere una lucertola perbene.
Una volta, aveva azzardato timidamente a recensire un libro che aveva letto, prima che gli sguardi annoiati delle altre la zittissero del tutto.

E via via, lo avvertivi, dicevano: lo avvertivi quando sentivi tutta l’amarezza e il veleno che c’era nelle parole della nuova arrivata, tutte le volte in cui parlava o raccontava del mondo da cui veniva. Spesso, anche di quello in cui si trovava tuttora.

A volte sembrava quasi una vipera.

giovedì 29 novembre 2007

Gli Elefanti Rosa






Piccola nota. L'illustrazione è del bravissimo Juri "Duca Ercole" Guidi.
Altra piccola nota. Questo racconto è un po' pesante.



Di qualunque sogno si trattasse, si interruppe non appena suo padre iniziò a chiamarlo.

Ogni volta, suo padre lo chiamava tre volte. Era solo alla terza, che la sua voce diventava più marcata, quasi quanto il sorriso che gli apriva addosso, non appena entrato in camera sua: un sorriso che avrebbe avuto bisogno di essere ricucito, che si slabbrava sempre di più, nello sforzo di diventare rassicurante. Ogni volta, lui contava fino a venti, prima di vedere quel sorriso penzolare dalla bocca di suo padre, e allora gli chiedeva sempre la stessa cosa, la stessa da due anni a questa parte.
E immancabilmente, si sentiva dare la stessa risposta.

“Ti porto a vedere gli Elefanti Rosa”

Il sorriso era sempre più largo. Adesso sistrappadessosistrappadessosistrappa… invece non si strappava mai, restava lì sulla faccia lucido e rosso.

“Tutti bambini vogliono vedere gli Elefanti Rosa”

Forse era vero, forse no. Non aveva mai parlato con gli altri bambini, degli elefanti. Non sapeva cosa in effetti ne pensassero loro.

Poi, nella sua camera, la più calda della casa, suo padre si spogliava, slacciandosi i vestiti di fretta, scrollandoseli di dosso prima che andassero a fuoco. Alla fine, restava sempre in mutande, davanti a lui, a fissarlo con un’aria istupidita, quasi fosse la prima volta che lo vedeva. Restavano sempre così, all’inizio. A guardarsi a vicenda, con il bambino che si chiedeva cosa ci stesse facendo lì… e la sensazione, che non avrebbe verificato mai, che forse suo padre si stesse ponendo una domanda simile.
Fino a che la proboscide dell’Elefantino Rosa non spuntava quasi intimorita, facendo capolino dalle mutande di papà.

“Ha un po’ paura… prova ad accarezzarlo”, spiegava sempre suo padre; e per l’ennesima volta, lui gli avrebbe accarezzato la proboscide in quel modo che gli era stato insegnato, e l’elefantino - in cambio - gli avrebbe sputato in faccia la sua bava rabbiosa.
“Non è cattivo… vuole solo giocare
La voce di suo padre alitava sempre su quel verbo, giocare, riuscendo a renderlo in qualche modo tangibile. E puzzolente. Il puzzo di sudore di cui si imperlava il corpo. La sua voce che si faceva pesante. Forse era portare un intero elefante addosso, che rendeva suo padre così stanco.
“Ora chiudi gli occhi”

Gli parlava in una sorta di falsetto, una voce acuta, molto alta, squillante. E fragile… con mille crepe che si potevano rompere (e l’avrebbero fatto) da un momento all’altro.

“E’ arrivata la mamma… è arrivata la mamma, piccolo… stai tranquillo… c’è qui la mamma” . Lo abbracciava e se lo stringeva al petto. Gli teneva la testa premuta contro il capezzolo sinistro e la sua puzza gli colava addosso, per entrargli dentro e non lasciarlo mai più. E l’Elefantino gli faceva le fusa, strofinandogli addosso la proboscide.

“La mamma non permetterà più che ti tocchi quel PORCO di tuo padre”

Il mondo si tingeva di rosso, si stringeva di colpo senza dargli il tempo di respirare. E prima che lui potesse capire cosa fosse successo, suo padre gli sbatteva un altro pugno addosso, facendolo cadere a terra. Aveva imparato a cadere in terra senza gridare, cadere e basta, perdendo l’equilibrio, spegnendosi, con le batterie che si scaricavano, con i fili che cedevano, il giocattolo che si rompeva. Cadeva a terra e sentiva suo padre raccoglierlo e metterlo sul letto a pancia sotto.

E a quel punto, suo padre si voltava verso la porta, e diceva: “Vieni pure”. E lui sentiva la porta aprirsi, e i passi leggeri di qualcuno che entrava, che stava lì senza dire una parola, forse a guardare. Non sarebbe mai riuscito (neanche anni dopo) a capire chi fosse: in quei momenti, suo padre gli teneva sempre la faccia schiacciata contro il cuscino, iniziando a sbaciucchiargli il collo.
Aspettava che la proboscide dell’Elefante Rosa gli venisse spinta dentro.
E l’Elefante, allora, lo avrebbe chiamato principessa.


Mia piccola principessa.

mercoledì 28 novembre 2007

28/11/2007: prima visita dopo tanto tempo...

"Questo a casa mia si chiama rosicare... e ne avevamo già parlato, no?"
"Rosicando? Tu si 'na capa 'e cazzo! Tu non capisc a' situazione!"
"Ok, calmati. Spiegamela, allora. Spiegami questa benedetta situazione"
"A' situaziòne è ca' l'ho messo cu e' spallè o' muro. Ha fatto a' primadonna, ha fatto a' grande star. Mo' si caga sott' "
"Perchè dovrebbe cagarsi sotto, scusa?"
"Pecchè è passàt o' suo mument e' gloria... o' successo gli ha dato alla testa. Tu nun saje quello ca' saccio io!"
"No, eh... adesso, per favore. Finché sono tue opinioni è un discorso. Ma se devi usare questo spazio per sputtanarlo pubblicamente, allora no grazie. Non mi va di finire nei casini"
"S'è ridott' na' merda. Due anni fa si drogàv nu' sacc'. 'Na volta..."
"Senti, ti ho già detto che..."
"... si è pigliato uno 'e quegli allucinogeni. Ha iniziato a dare testate ncopp'o' muro. E sbraitava. Mi, se sbraitava! 'E MONETE, urlava, 'E MONETE!"
"Uh... così grave?"
"Te pare ca' scherzo? O' peggio è stato quando ha provato a calarsi int'o scarico do' cesso. E sempre a sbraitare aggia a' cerca 'E MONETE!"
"Vabbene, ok... sta male. Ma a te, che ne viene in tasca di andare a raccontare queste cose in giro?"
"A' gente se n'è accorta... si è rovinato... nun zompa più comm' na volta. E' ingrassato, pure. A' gente vuole a' qualità e si accorgerà ca' a qualità song'io. Bello, magro, affidabile, talentuoso e senza grilli pa' capa"
"Senti ma... è vero che in Super Mario Galaxy ti si vede solo se completi il gioco con Mario?"
"..."
"..."
"Vatenne affanculo, va' "

martedì 27 novembre 2007

prova