Piccola nota. L'illustrazione è del bravissimo Juri "Duca Ercole" Guidi.
Altra piccola nota. Questo racconto è un po' pesante.
Di qualunque sogno si trattasse, si interruppe non appena suo padre iniziò a chiamarlo.
Ogni volta, suo padre lo chiamava tre volte. Era solo alla terza, che la sua voce diventava più marcata, quasi quanto il sorriso che gli apriva addosso, non appena entrato in camera sua: un sorriso che avrebbe avuto bisogno di essere ricucito, che si slabbrava sempre di più, nello sforzo di diventare rassicurante. Ogni volta, lui contava fino a venti, prima di vedere quel sorriso penzolare dalla bocca di suo padre, e allora gli chiedeva sempre la stessa cosa, la stessa da due anni a questa parte.
E immancabilmente, si sentiva dare la stessa risposta.
“Ti porto a vedere gli Elefanti Rosa”
Il sorriso era sempre più largo. Adesso sistrappadessosistrappadessosistrappa… invece non si strappava mai, restava lì sulla faccia lucido e rosso.
“Tutti bambini vogliono vedere gli Elefanti Rosa”
Forse era vero, forse no. Non aveva mai parlato con gli altri bambini, degli elefanti. Non sapeva cosa in effetti ne pensassero loro.
Poi, nella sua camera, la più calda della casa, suo padre si spogliava, slacciandosi i vestiti di fretta, scrollandoseli di dosso prima che andassero a fuoco. Alla fine, restava sempre in mutande, davanti a lui, a fissarlo con un’aria istupidita, quasi fosse la prima volta che lo vedeva. Restavano sempre così, all’inizio. A guardarsi a vicenda, con il bambino che si chiedeva cosa ci stesse facendo lì… e la sensazione, che non avrebbe verificato mai, che forse suo padre si stesse ponendo una domanda simile.
Fino a che la proboscide dell’Elefantino Rosa non spuntava quasi intimorita, facendo capolino dalle mutande di papà.
“Ha un po’ paura… prova ad accarezzarlo”, spiegava sempre suo padre; e per l’ennesima volta, lui gli avrebbe accarezzato la proboscide in quel modo che gli era stato insegnato, e l’elefantino - in cambio - gli avrebbe sputato in faccia la sua bava rabbiosa.
“Non è cattivo… vuole solo giocare”
La voce di suo padre alitava sempre su quel verbo, giocare, riuscendo a renderlo in qualche modo tangibile. E puzzolente. Il puzzo di sudore di cui si imperlava il corpo. La sua voce che si faceva pesante. Forse era portare un intero elefante addosso, che rendeva suo padre così stanco.
“Ora chiudi gli occhi”
Gli parlava in una sorta di falsetto, una voce acuta, molto alta, squillante. E fragile… con mille crepe che si potevano rompere (e l’avrebbero fatto) da un momento all’altro.
“E’ arrivata la mamma… è arrivata la mamma, piccolo… stai tranquillo… c’è qui la mamma” . Lo abbracciava e se lo stringeva al petto. Gli teneva la testa premuta contro il capezzolo sinistro e la sua puzza gli colava addosso, per entrargli dentro e non lasciarlo mai più. E l’Elefantino gli faceva le fusa, strofinandogli addosso la proboscide.
“La mamma non permetterà più che ti tocchi quel PORCO di tuo padre”
Il mondo si tingeva di rosso, si stringeva di colpo senza dargli il tempo di respirare. E prima che lui potesse capire cosa fosse successo, suo padre gli sbatteva un altro pugno addosso, facendolo cadere a terra. Aveva imparato a cadere in terra senza gridare, cadere e basta, perdendo l’equilibrio, spegnendosi, con le batterie che si scaricavano, con i fili che cedevano, il giocattolo che si rompeva. Cadeva a terra e sentiva suo padre raccoglierlo e metterlo sul letto a pancia sotto.
E a quel punto, suo padre si voltava verso la porta, e diceva: “Vieni pure”. E lui sentiva la porta aprirsi, e i passi leggeri di qualcuno che entrava, che stava lì senza dire una parola, forse a guardare. Non sarebbe mai riuscito (neanche anni dopo) a capire chi fosse: in quei momenti, suo padre gli teneva sempre la faccia schiacciata contro il cuscino, iniziando a sbaciucchiargli il collo.
Aspettava che la proboscide dell’Elefante Rosa gli venisse spinta dentro.
E l’Elefante, allora, lo avrebbe chiamato principessa.
Mia piccola principessa.