mercoledì 2 gennaio 2008

L'inutile rivoluzione di Mister Chip



NdScimmia: ciao a tutti, passato buone vacanze? ok, questo racconto è stato scritto per Spacewave, un concorso legato ad Arezzowave. Si trattava di scegliere un incipit scritto da un autore famoso e continuarlo. Io ho scelto quello di Lansdale. Il pezzo iniziale del Maestro è la parte in corsivo, il brutto inizia dopo :-)
NdScimmia 2: ho cambiato un po' di link, avete visto? cioè, ne ho aggiunti.
NdScimmia 3: il cane qui sopra esiste davvero. Non è stato rianimato con un rito necromantico. E' proprio nato così. Credo.

Quando uscì dalla porta, la luce del sole si era fatta rossa e stava morendo lentamente dentro la fila di case sull’altro lato della via. Un cane attraversò la strada dimenando la coda. Lui si chinò, gli fece una carezza e pensò. Mi resta ancora una sola cosa da fare.


Non era sicuro, tuttavia, di riuscirci come un tempo. Gli tornava alla mente quello che diceva sempre ai suoi amici – tutta questione di allenamento e pelo sullo stomaco – e adesso l’allenamento non c’era più. In compenso il pelo sullo stomaco era rimasto eccome, nonostante gli strati di buonsenso ed educazione con cui lo aveva camuffato per fin troppi anni.
Prese il cane, tirandolo su di forza con la sinistra e tentando di chiudergli le fauci con la destra.
Il botolo dette in un ringhio, schioccando le mascelle vicinissimo alle dita di lui. Uno spettacolo delizioso di peli infuriati e zanne snudate e frementi, come l’uomo non se ne ricordava da un pezzo.
E lui, un ciccione sudaticcio con i baffi lunghi e le dite così callose in punta da somigliare a funghi, per qualche istante si sentì trasfigurato in qualcosa di vicino a un simbolo. Il simbolo della riscossa, che si staglia contro un sole rosso, con la pancia che balla e un cane che gli si dimena addosso.
“Che cazzo stai facendo?”
“Stai zitto, stupido bastardo!”
Le mani chiusero la loro presa serrando il muso al cane, proprio mentre la bestia stava latrando qualcosa riguardo al suo pedigree. Vaffanculo al pedigree.


Ingoiando adrenalina a ogni boccata d’aria, si mise a correre disperatamente, calcolando tutti i danni che sarebbe stato in grado di provocare nei pochi secondi prima di essere scoperto.


*
Estratto da “Il bracchetto tornerà a volare”, edizioni Krypto, 2031

Storie di cani parlanti, ce ne sono sempre state. Trattati come fenomeni da circo o roba da cartoni animati, poco importa: credo sia sempre esistita, nella razza umana, l’intuizione di un possibile contatto tra le nostre specie. Un’intuizione esorcizzata da buffi personaggi da cartone animato, comunque asserviti al Padrone, accomodanti e consci del proprio ruolo di subordinati.
Dev’essere stato uno shock quando, in quello storico 16 gennaio del 2019, Ugly Sam mandò il suo latrato di uguaglianza.
Anche per noi lo fu. Ugly Sam non assomigliava certo a un leader. Nato senza pelo, con gli occhi totalmente bianchi e spiritati, le zanne piccole e storte, sembrava uscito dai peggiori incubi sui Pet’s Cemetary umani.


Eppure, dal podio da vincitore come Cane Più Brutto del Mondo, ad Ugly Sam bastò una sola frase per cambiare la storia.
Nessuno si aspettava che riuscisse a parlare. Nessuno si aspettava che pronunciasse quelle parole.


Oggi ho fatto un sogno.

*

A dieci anni, Chip poteva ancora permettersi di guardare i cartoni animati e farsi stare antipatici gli accalappiacani.

Del resto, sarebbe stata una bella sfida provare a fare il contrario: di norma, in ogni puntata, erano massicci e scuri come serial killer. Certe volte, addirittura, non si vedevano nemmeno in faccia e li riconoscevi solo dall’uniforme e dal laccio, quasi che la loro esistenza fosse tutta lì, più chiara di un testo sillabato.
Se la ridevano di quelle risate roche che hanno i cattivi di grana grossa, piombavano sui randagi e li infilavano senza troppi complimenti in camion che somigliavano a cellulari della polizia.


A Chip sarebbe piaciuto fare diversi mestieri, in una caotica kermesse che aveva frullato lo Scienziato all’Inventore e poi al Poliziotto. La pancia aveva già assunto una circonferenza critica quando aveva realizzato che l’accalappiacani era l’unica opzione per cui ancora non lo avevano bocciato.
Eppure, qualcosa di lui da bambino doveva essere rimasta, perché all’inizio il suo lavoro gli era sembrato spregevole quanto cavare i denti d’oro ai morti.
Poi c’aveva fatto l’abitudine. Allenamento. Pelo sullo stomaco.

“Ai cani come te, ci spezzavo il collo”, sibilò all’orecchio del botolo.


Non era vero, ma l’uggiolare disperato del suo ostaggio gli riempiva il cuore di una soddisfazione malsana.
Guardò sotto di sé.

Vista dal tetto di casa sua, la strada in cui aveva sempre vissuto appariva stretta e poco familiare. Sotto, iniziavano già ad addensarsi le prime decine di cani accompagnati dai loro umani, col tartufo all’insù e lo sguardo sgomento. Pastori tedeschi poliziotto abbaiarono agli uomini di supporto di formare i primi cordoni per contenere i curiosi, mentre vecchi bulldog di quartiere si bulleggiavano davanti a svenevoli barboncine, commentando con aria di sufficienza ogni mossa fatta dalle forze dell’ordine, lì davanti.

Sul tetto di un condominio di cinque metri, Chip pensava a Paperino. Paperino era stato il suo collega nei turni di lavoro prima della Liberazione. Assomigliava veramente a Paperino, con l’aria cupa e il broncio che somigliava a un becco, e aveva pure la stessa propensione a incazzarsi facilmente e a lavorare il meno possibile.
Quando l’aria era cambiata, si era messo a fare il pedicure per cani. Non se la cavava bene: quei bastardi erano tipi precisi, a cui piaceva il lavoro fatto bene, e Paperino era sempre stato troppo arraffazzone. Quando Chip l’aveva rivisto a distanza di anni, era il doppio più magro, con l’aria esaurita e preso a lamentarsi degli altri umani poco fuori dalla porta del suo negozio, quasi volesse ingraziarsi i suoi nuovi padroni a quattro zampe.


“Lo faccio anche per te, Paperino”, sussurrò Chip.

*

(Da I migliori amici del cane, in onda tutti i giorni su Dogville Station, alle 13.28)


“Alla luce di quello che è successo, crede sia ancora possibile un’integrazione?”
“La ringrazio per la domanda. E’ ovvio che questi episodi sono spiacevoli e non dovrebbero mai accadere. Giudico però affrettata la valutazione dei partiti di destra”
“Alcuni governatori degli Stati meno progressisti minacciano sanzioni gravi nei confronti degli esseri umani”
“Mah… certo, la rabbia ha il suo peso. Però restiamo quadrupedi e sarebbe stupido ignorare i benefici che la convivenza con voi umani ha portato.Quest’intervista non sarebbe mai potuta essere realizzata e trasmessa solo da cani, ad esempio”
“Quindi, tutti perdonati?”
“Certo che no. Sono anni che siamo in mezzo a una rivoluzione culturale di portata enorme. Alcuni di voi non l’hanno ancora accettato: essere stati la specie dominante per millenni non aiuta ad ammettere il fatto che la maggior parte dei ruoli di potere siano oggi occupati da capacissimi cani. Eppure è così e finché non sarà chiaro che godiamo degli stessi privilegi, incidenti come questo saranno all’ordine del giorno”
“Dunque la sua ricetta per gli umani che ancora non hanno capito come stanno le cose è di farsene una ragione?”
“Non lo direi proprio con termini del genere, ma pressappoco il messaggio è questo”
“Crede che questo sia il mondo che Ugly Sam avrebbe voluto?”
“Non so. Certo, i tempi sono molto cambiati e nemmeno lui avrebbe mai immaginato tutte le conseguenze del suo insegnamento”
“Un’ultima domanda: come reagisce alle accuse della destra, secondo cui un suo antenato fu tra i più feroci mastini di Auschwitz?”
“E’ stupido riallacciarsi sempre a questi argomenti. E’ storia vecchia. E in ogni caso, era il periodo in cui comandavano gli uomini. Noi, di sicuro non avevamo libertà di scelta… obbedivamo agli ordini, nient’altro”

*

Quando calarono le tenebre, e davvero non ci volle molto, Chip guardò sotto di sé i riflettori che venivano accesi uno dopo l’altro e che, puntati verso di lui, davano a tutta la scena un macabro e allegro spirito da grand guignol imminente.
“Ti farò a pezzi, piccolo bastardo… ti ammazzerò anche la famiglia”, sibilò all’orecchio del botolo.
Il cane cercò – con molta meno convinzione di prima – di divincolarsi, per poi uggiolare frasi sconnesse a proposito di un’eventuale ricompensa nel caso in cui fosse stato lasciato libero.
A Chip veniva voglia di ridere. Perché lì, in cima a un palazzo squallido e con la vernice a squame sui muri, si sentiva finalmente qualcuno dopo fin troppo tempo.
Magari il senso di tutta la sua caduta, tutto il grigiore in cui era piombato a rotta di collo negli ultimi anni, trovava una giustificazione nell’essere proprio lì, in quel momento.


Poi, un abbaiare disperato dal cordone di cani poliziotti.
“Ragazzo, non fare sciocchezze! Ti stai rovinando la vita!”
“La mia vita è GIA’ rovinata abbastanza, ammasso di pulci schifoso!”
Il sommesso ringhiare che ne seguì gli accese sulle labbra un altro vivace sorriso da pazzo. Un ululato impose di nuovo il silenzio. Poi, la stessa voce di prima, un po’ più tirata e irrigidita.
“Ragazzo, te la puoi cavare ancora. Hai fatto una cazzata, ma non hai ucciso nessuno. Al massimo ti potranno accusare di sequestro di persona ma, se te la giochi bene, non starai in gabbia nemmeno per un anno”
“Dagli retta”, mormorò disperato il botolo che aveva tra le mani.
Chip risucchiò il fiato. Poi esplose in una risata grassa e compiaciuta, con la bocca che era un cerchio nero disegnato su un faccione sempre più rosso. La pancia gli ballò più del solito, scossa da piccole onde di ilarità. Se non fossero state impegnate a tenere fermo il suo ostaggio, le mani avrebbero dovuto, da copione, essere battute contro quella pancia, come nei vecchi cartoni con i cattivi che sghignazzano in un modo plateale. I cattivi, gli accalappiacani.

Pensò a qualcosa da dire come ultima frase.
Qualcosa particolarmente zen, che esprimesse il suo stato d'animo.

"VORREI PISCIARVI A TUTTI NELLA FACCIA!", urlò, buttandosi di sotto insieme al suo piangente ostaggio.

*

A tarda sera, i cani guardavano ancora i corpi spiaccicati sul selciato.


Bisognerebbe metterlo a loro, il guinzaglio.
Gli dai un dito e si prendono la zampa.
E se un giorno fossero stufi e decidessero di farcela pagare?
Siamo troppo diversi, non possiamo convivere.
Mia nonna esisteva quando ancora non c’erano gli umani, e dice che al tempo le cucce non avevano bisogno di porte.
Siamo terribilmente affranti.
Però non è il caso di trascendere.
Ugly Sam era un coglione.


… i cani e gli umani si guardarono in tralice per tutta una notte, e per molte notti a seguire, da allora.

giovedì 20 dicembre 2007

Vipera sarò.

Non era una vipera qualunque e, se poteva far saltar fuori l’argomento in una qualche conversazione, non mancava di specificarlo.
Era un essere umano. Ah, le apparenze non contavano: lei si elevava sopra le sue sciatte e volgari simili, solo capaci di sibilarsi addosso gli sbisci peggiori e di sputarsi veleno. Aveva cambiato anche il suo nome: quando ancora era in una covata d’uova, sua madre aveva già deciso che si sarebbe chiamata Vanessa.

Vanessa. Un bel nome aristocratico che si perdeva in un basso, sottile e sensuale sibilo.
Ma Vanessa preferiva farsi chiamare Anna. Secco, austero, e non c’era caso che scivolasse in nessun tipo di doppia esse, nella pronuncia.

Al tempo in cui si svolge la nostra storia, non c’era più nessuno che riuscisse a ricordare il suo vero nome. Anche io vi parlerò di lei come Anna, per puro rispetto alla sua memoria.
Anna era un animo nobile, forse troppo idealista, ed anche troppo intelligente per non cogliere i pettegolezzi con la stilettavano alle spalle… su quanto le sue scaglie fossero un po’ più opache del solito, su quanto il suo veleno oggi non fosse altrettanto corrosivo di ieri.

Ad Anna piacevano gli esseri umani per quanto odiava i suoi simili: ogni volta che si sentiva sola tra le altre vipere, ogni volta che si accorgeva della loro immensa stupidità e della loro cieca cattiveria, si nascondeva a spiare qualche bipede. Le piaceva il loro stare così eretti, la pelle morbida in cui affondare i denti, le loro pance che si tenevano ben lontane dal suolo, a sfidare la legge di gravità. Le piaceva stare a sentire i discorsi che facevano, spesso così simili a quelli delle vipere, ma dotati di una raffinatezza che un serpente nemmeno si sarebbe sognata.
Tuttavia non si avvicinava mai troppo a loro. Gli umani hanno paura delle vipere.

E così, una sera, Anna decise di iniziare un intenso programma di automiglioramento, per diventare perfettamente simile a loro.

La prima cosa che fece, fu iniziare a esercitarsi nel canto lirico: le permetteva evoluzioni vocali che potevano farle mettere per un po’ da parte i sibili. E quando i suoni furono maturati a sufficienza da articolare vere e proprie parole, organizzò un concerto.
Oh, fu senz’altro un apparente e indimenticabile trionfo: e furono molte che andarono a complimentarsi personalmente con lei, dicendole che – avessero avuto mani per farlo – l’ avrebbero applaudita ore intere. Ma Anna immaginava bene quanto, il primo momento in cui si fossero trovate in disparte, avrebbero riso tra loro su quanto fosse brutta e innaturale la serie di rumori con cui Anna le aveva tediate un’intera serata.
Anna non si rilassava mai. Il pensiero del giudizio altrui la angosciava giorno e notte.
E se la toccavano nel suo punto debole, diventava incandescente di rabbia.
Diventava una vipera.

E lavorava, lavorava, lavorava su se stessa. Lavorò fino a farsi spuntare non un paio di manine, ma addirittura due paia.
Qualcuna delle altre, diceva che somigliavano più a zampe di lucertola che altro. Invidia pura e semplice.
E desiderava, sapete? Desiderava così forte che le caddero i dentini appuntiti, e ne spuntarono invece di nuovi, più squadrati e regolari. Trentadue: all’inizio davano un fastidio terribile.

E una mattina, quando sentì quelle scaglie farsi un po’ meno scure e più morbide, e il suo muso si fece un po’ più schiacciato, diede l’addio alla sua tana e decise di andarsene per sempre.
Le sue sorelle, avreste dovuto vederle, si proclamarono distrutte dal dolore di quella decisione… lei, Anna, che non era affatto una stupida, replicò sdegnosamente dicendo che perfino i loro cugini coccodrilli avevano più dignità a fingere di piangere. Levò la testa, con il muso levato altezzosamente all’insù e se ne andò.
Per non tornare mai più.

Adesso, immaginatevi questa povera vipera con quattro zampe, i dentini regolari e le scaglie ammorbidite, mentre tenta di attaccare bottone con gli esseri umani… ed è sicura di essere preparata su OGNI argomento possibile, per apparire interessante.
Parlò della situazione politica a Bagdad. Della necessità di rinnovare spiritualmente le persone. Della profondità dell’amore e della passione, della loro indivisibilità e allo stesso tempo incomunicabilità.
Avrebbe voluto entrare in politica.
Oppure scrivere un libro.
O aprire un blog.

Invece gli altri umani l’ascoltavano (ma siamo poi così sicuri che l’ascoltassero?), la fissavano intensamente e poi facevano un secco e breve commento su che razza di strano tipo di lucertola fosse quello.
Ora, voi e io sapete benissimo che Anna non era una lucertola, e non assomigliava neppure di striscio a una di esse. Ma evidentemente, gli esseri umani si ponevano meno domande di quello che lei si aspettava.

Lei sgattaiolava su e giù per i muri, illuminata dai lampioni, evitando macchine troppo distratte per far caso al suo passaggio (lei che aveva imparato diligentemente ad attraversare col verde e a fermarsi col rosso). Sognava e rimpiangeva allo stesso tempo il tempo in cui l’avrebbero invitata a qualche talk-show, o in cui si sarebbe parlato delle sue scandalose relazioni extra-coniugali con il meglio del beautiful people all’ultimo grido. Il giorno in cui i suoi articoli di denuncia avrebbero fatto vibrare di protesta l’umanità, levandola contro ogni ingiustizia e prepotenza.
Non era una lucertola!
Però… beh, però ancora zampettava invece di camminare e non stava affatto dritta. Ed era piccolina, e c’era quella maledetta coda che avrebbe dovuto… ritrarsi, no?

Un giorno, un gruppo di bambini la catturò e cercò di tagliarla, quella coda.
Tanto alle lucertole ricresce.
La tenevano ferma, mentre lei urlava impazzita di terrore, dicendo che stavano commettendo un crimine, citando la Convenzione di Ginevra in casi di tortura dei prigionieri, citando febbrilmente passi dei più grandi pensatori pacifisti.
Il dolore le fece stridere la voce e i nervi, mentre il mondo diventava rosso e sembrava colare per strada assieme al suo sangue, orribilmente simile a quello di un essere umano.

E così, cosa restava da fare ad Anna?
Mutilata, sciancata, perennemente derisa, andò in un nido di lucertole.
Si presentò alle altre, e disse che era umana… no, anzi una vipera! Ehm, no. Una lucertola, ecco. Una lucertola. Proprio come loro.
Le altre la guardarono con sospetto… non sembrava proprio una lucertola come le altre… con quel muso troppo schiacciato, quegli strani dentini, quelle zampine che sembravano più mani che altro.

Così, anche quando la accettarono tra loro, preferivano comunque lasciarla da sola. Perché sentivano una sottile inquietudine, quando cantava in quello strano modo in cui solo lei riusciva a farlo, con quei gorgheggi e quei versi che nessuna di loro avrebbe mai saputo riprodurre.

E poi non si rilassava mai. Non stava mai come le altre a pensare al nulla, spaparanzandosi al sole. Certo, non che fosse obbligata, ma è fin troppo noto che la comunità delle lucertole non ama chi si fa troppe domande, chi è troppo cervellotico, insomma. E lei era un po’ troppo intellettuale, per essere una lucertola perbene.
Una volta, aveva azzardato timidamente a recensire un libro che aveva letto, prima che gli sguardi annoiati delle altre la zittissero del tutto.

E via via, lo avvertivi, dicevano: lo avvertivi quando sentivi tutta l’amarezza e il veleno che c’era nelle parole della nuova arrivata, tutte le volte in cui parlava o raccontava del mondo da cui veniva. Spesso, anche di quello in cui si trovava tuttora.

A volte sembrava quasi una vipera.

giovedì 29 novembre 2007

Gli Elefanti Rosa






Piccola nota. L'illustrazione è del bravissimo Juri "Duca Ercole" Guidi.
Altra piccola nota. Questo racconto è un po' pesante.



Di qualunque sogno si trattasse, si interruppe non appena suo padre iniziò a chiamarlo.

Ogni volta, suo padre lo chiamava tre volte. Era solo alla terza, che la sua voce diventava più marcata, quasi quanto il sorriso che gli apriva addosso, non appena entrato in camera sua: un sorriso che avrebbe avuto bisogno di essere ricucito, che si slabbrava sempre di più, nello sforzo di diventare rassicurante. Ogni volta, lui contava fino a venti, prima di vedere quel sorriso penzolare dalla bocca di suo padre, e allora gli chiedeva sempre la stessa cosa, la stessa da due anni a questa parte.
E immancabilmente, si sentiva dare la stessa risposta.

“Ti porto a vedere gli Elefanti Rosa”

Il sorriso era sempre più largo. Adesso sistrappadessosistrappadessosistrappa… invece non si strappava mai, restava lì sulla faccia lucido e rosso.

“Tutti bambini vogliono vedere gli Elefanti Rosa”

Forse era vero, forse no. Non aveva mai parlato con gli altri bambini, degli elefanti. Non sapeva cosa in effetti ne pensassero loro.

Poi, nella sua camera, la più calda della casa, suo padre si spogliava, slacciandosi i vestiti di fretta, scrollandoseli di dosso prima che andassero a fuoco. Alla fine, restava sempre in mutande, davanti a lui, a fissarlo con un’aria istupidita, quasi fosse la prima volta che lo vedeva. Restavano sempre così, all’inizio. A guardarsi a vicenda, con il bambino che si chiedeva cosa ci stesse facendo lì… e la sensazione, che non avrebbe verificato mai, che forse suo padre si stesse ponendo una domanda simile.
Fino a che la proboscide dell’Elefantino Rosa non spuntava quasi intimorita, facendo capolino dalle mutande di papà.

“Ha un po’ paura… prova ad accarezzarlo”, spiegava sempre suo padre; e per l’ennesima volta, lui gli avrebbe accarezzato la proboscide in quel modo che gli era stato insegnato, e l’elefantino - in cambio - gli avrebbe sputato in faccia la sua bava rabbiosa.
“Non è cattivo… vuole solo giocare
La voce di suo padre alitava sempre su quel verbo, giocare, riuscendo a renderlo in qualche modo tangibile. E puzzolente. Il puzzo di sudore di cui si imperlava il corpo. La sua voce che si faceva pesante. Forse era portare un intero elefante addosso, che rendeva suo padre così stanco.
“Ora chiudi gli occhi”

Gli parlava in una sorta di falsetto, una voce acuta, molto alta, squillante. E fragile… con mille crepe che si potevano rompere (e l’avrebbero fatto) da un momento all’altro.

“E’ arrivata la mamma… è arrivata la mamma, piccolo… stai tranquillo… c’è qui la mamma” . Lo abbracciava e se lo stringeva al petto. Gli teneva la testa premuta contro il capezzolo sinistro e la sua puzza gli colava addosso, per entrargli dentro e non lasciarlo mai più. E l’Elefantino gli faceva le fusa, strofinandogli addosso la proboscide.

“La mamma non permetterà più che ti tocchi quel PORCO di tuo padre”

Il mondo si tingeva di rosso, si stringeva di colpo senza dargli il tempo di respirare. E prima che lui potesse capire cosa fosse successo, suo padre gli sbatteva un altro pugno addosso, facendolo cadere a terra. Aveva imparato a cadere in terra senza gridare, cadere e basta, perdendo l’equilibrio, spegnendosi, con le batterie che si scaricavano, con i fili che cedevano, il giocattolo che si rompeva. Cadeva a terra e sentiva suo padre raccoglierlo e metterlo sul letto a pancia sotto.

E a quel punto, suo padre si voltava verso la porta, e diceva: “Vieni pure”. E lui sentiva la porta aprirsi, e i passi leggeri di qualcuno che entrava, che stava lì senza dire una parola, forse a guardare. Non sarebbe mai riuscito (neanche anni dopo) a capire chi fosse: in quei momenti, suo padre gli teneva sempre la faccia schiacciata contro il cuscino, iniziando a sbaciucchiargli il collo.
Aspettava che la proboscide dell’Elefante Rosa gli venisse spinta dentro.
E l’Elefante, allora, lo avrebbe chiamato principessa.


Mia piccola principessa.

mercoledì 28 novembre 2007

28/11/2007: prima visita dopo tanto tempo...

"Questo a casa mia si chiama rosicare... e ne avevamo già parlato, no?"
"Rosicando? Tu si 'na capa 'e cazzo! Tu non capisc a' situazione!"
"Ok, calmati. Spiegamela, allora. Spiegami questa benedetta situazione"
"A' situaziòne è ca' l'ho messo cu e' spallè o' muro. Ha fatto a' primadonna, ha fatto a' grande star. Mo' si caga sott' "
"Perchè dovrebbe cagarsi sotto, scusa?"
"Pecchè è passàt o' suo mument e' gloria... o' successo gli ha dato alla testa. Tu nun saje quello ca' saccio io!"
"No, eh... adesso, per favore. Finché sono tue opinioni è un discorso. Ma se devi usare questo spazio per sputtanarlo pubblicamente, allora no grazie. Non mi va di finire nei casini"
"S'è ridott' na' merda. Due anni fa si drogàv nu' sacc'. 'Na volta..."
"Senti, ti ho già detto che..."
"... si è pigliato uno 'e quegli allucinogeni. Ha iniziato a dare testate ncopp'o' muro. E sbraitava. Mi, se sbraitava! 'E MONETE, urlava, 'E MONETE!"
"Uh... così grave?"
"Te pare ca' scherzo? O' peggio è stato quando ha provato a calarsi int'o scarico do' cesso. E sempre a sbraitare aggia a' cerca 'E MONETE!"
"Vabbene, ok... sta male. Ma a te, che ne viene in tasca di andare a raccontare queste cose in giro?"
"A' gente se n'è accorta... si è rovinato... nun zompa più comm' na volta. E' ingrassato, pure. A' gente vuole a' qualità e si accorgerà ca' a qualità song'io. Bello, magro, affidabile, talentuoso e senza grilli pa' capa"
"Senti ma... è vero che in Super Mario Galaxy ti si vede solo se completi il gioco con Mario?"
"..."
"..."
"Vatenne affanculo, va' "

martedì 27 novembre 2007

prova